di Fabrizio Casari

La certezza di codici è sempre stata la premessa inutile delle loro diverse interpretazioni. Un reato, ad esempio, lo è sempre e comunque, indipendentemente dal ruolo di chi lo commette? A giudicare dall’inchiesta che la Procura di Roma ha aperto contro Enrico Deaglio, pare proprio di no. Il direttore di Diario, infatti, nello spazio di un interrogatorio, si è visto trasformato da “persona informata dei fatti” a persona “iscritta nel registro degli indagati”. Un tempo era conosciuta come “il porto delle nebbie”, per la sua capacità d’insabbiamento di ogni inchiesta che lambisse il potere politico. Oggi, la Procura di Roma, toglie la polvere dal fascistissimo Codice Rocco e ripropone con furore l’articolo 656, che definisce e sanziona il reato di “diffusione di notizie false, esagerate e tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico”. Pena prevista? Trecentonove euro di ammenda nel migliore dei casi, fino a tre mesi di reclusione nel peggiore. Uno si chiede: che cosa mai avrà detto Deaglio per giustificare un così repentino cambio del suo status giuridico relativamente all’inchiesta? Nulla di più - anzi molto di meno - di quanto da sei mesi va dicendo Silvio Berlusconi e il suo seguito vociante. Cioè che le elezioni sono state macchiate da brogli o, comunque, da operazioni poco trasparenti. Viene voglia di chiedere alla Procura: perché se lo dice Berlusconi è lecito e se lo dice Deaglio è un reato?

La Procura sostiene che il calcolo finale nell’attribuzione dei voti viene fornito dalla Cassazione che lo effettua sulla base del cartaceo; dunque, l’elaborazione elettronica non risulterebbe determinante. Intanto va detto che la Cassazione effettua un controllo a campione e non totale; poi, anche dove si dimostrasse che il risultato dell’esame della Corte sia stato scrupoloso e corretto, questo comunque non eliminerebbe i tentativi di broglio che Deaglio denuncia. Essi infatti si riferiscono esclusivamente all’elaborazione elettronica dei dati del Viminale, step precedente alla lettura finale. E la Procura, mentre ritiene le denunce di Deaglio “turbativa dell’ordine pubblico” in quanto prive di riscontri probatori, procede con una denuncia ai suoi danni senza nessuna indagine che ne certifichi - anche con l’avallo di perizie all’uopo - l’eventuale strumentalità. Insomma, la Procura riceve una notizia di reato ed apre una inchiesta. Poi, invece di promuovere gli accertamenti istruttori, denuncia il denunciante. Perché?

Noi non abbiamo riscontri probatori per condividere o meno la tesi di Enrico Deaglio; però, da giornalisti, abbiamo l’impertinenza di porci domande e anche quella di dubitare delle risposte, soprattutto quando appaiono in tutta evidenza attestati di fede politica allo stato puro.
Deaglio racconta i lati oscuri di quelle ore seguite al voto. Racconta che alcune evidenti anomalie sono occorse nelle operazioni di spoglio delle schede elettorali. Sostiene che un software potrebbe aver truccato i dati dell’elaboratore dati e, aggiunge, la conferma starebbe nell’evidente anomalia nei conteggi relativi alle schede bianche, spaventosamente in calo rispetto a tutte le consultazioni passate della storia della Repubblica ed anche in quelle delle successive amministrative. Secondo il giornalista, il software avrebbe trasformato la stragrande percentuale di schede bianche in voti a Forza Italia. Vero o no, resta comunque l’evidenza di una anomalia statistica confermata da tutti i tecnici del settore. Qualcuno sa spiegare il perché?

Settore che si è visto dileggiare dopo che per anni era stato osannato, giacché per la prima volta, tutti - ma proprio tutti - gli istituti di sondaggi hanno clamorosamente sbagliato (e nelle medesime percentuali) le previsioni del voto finale e quelle relative al partito del Cavaliere. Si dirà: ma i sondaggi non sono che proiezioni statistiche su campione. Certo, peccato solo che fino ad oggi abbiano sempre dimostrato una robusta attinenza tra previsioni e risultati confermando che, se non sono scienza, non sono nemmeno fantascienza. E, si vorrà ammettere, sempre in ordine alle anomalie, che il ritardo enorme nelle procedure di scrutinio fu una novità assoluta rispetto al passato. Aspettiamo spiegazioni.
Ma c’è di più e noi, sommessamente, domandiamo: è vero o no che la società fornitrice del software per l’elaborazione dei dati per il Viminale vede al suo interno il figlio dell’allora ministro dell’Interno ed esponente di Forza Italia Beppe Pisanu? Non si intravede nessuna stonatura? Attendiamo risposte.

E chi e che cosa ha spiegato quale ragione ha spinto l’allora ministro dell’Interno a recarsi per almeno due volte, con lo spoglio delle schede in corso, nell’abitazione privata di Silvio Berlusconi? Attenzione, non era la visita di un ministro al Capo del Governo, cosa comunque inopportuna in quei momenti: era la visita del garante dell’imparzialità delle istituzioni ad uno dei due candidati, precisamente il “suo” candidato. Per dirsi cosa? Oggi Pisanu chiede le scuse. Non appena spiegherà cosa lo portò ripetutamente a casa di Berlusconi mentre il Viminale controllava i dati, vedremo se scusarci. Fino ad oggi non l’ha mai fatto. Anche qui, restiamo in attesa. Anche se, giusto poche ore fa, il ministro Amato, successore di Pisanu, una risposta indiretta a molti quesiti l'ha inaspettatamente data. "Abbiamo deciso di fermare la macchina del voto elettronico - ha spiegato - perchè il voto personalmente espresso è meno facile da taroccare e soprattutto non si possono inserire software ". Excusatio non petita, si direbbe. Al momento ci limitiamo a rilevare la tempistica della successione degli eventi e restiamo in attesa di risposte.

C’è poi un secondo aspetto, stonato anch’esso, della vicenda: è rappresentato dalle dichiarazioni degli esponenti del centrosinistra che oscillano tra la granitica certezza della regolarità dello spoglio, fino alle evidenziazioni allarmate delle eventuali conseguenze politiche di un possibile riconteggio delle schede. Tralasciando la banale osservazione per la quale gli eletti dovrebbero tacere di fronte ad eventuali dubbi sulle procedure che li hanno eletti (se non altro per buon gusto, oltre che per trovarsi in presenza di un palese conflitto d’interessi), sono le considerazioni politiche che risultano insopportabili. Perché il quadro politico non può prescindere dal rispetto delle leggi e dal dettato costituzionale ed eventuali anomalie nelle procedure del voto non possono che essere chiarite attraverso un’inchiesta, non con una chiusura politica della stessa? Meglio, molto meglio, sarebbe stato chiedere rapidamente l’avvio di tutte le azioni destinate a fare chiarezza, dal momento che la legittimazione dell’investitura popolare non può che essere come la moglie di Cesare: al di sopra di ogni sospetto.

Le denunce e le ipostesi sottostanti che Deaglio formula possono essere condivisibili o meno, anche se pongono domande alle quali ancora non giungono risposte. Ma se si ritengono “politiche” - e perciò faziose ed inconsistenti, prive di fondamento sotto il profilo probatorio - si può rispondere in vari modi, tranne che con una “diversa” lettura, anch’essa chiaramente “politica”, della vicenda. Tanto meno con la gendarmeria. Se servono prove per denunciare, servono a tutti, anche alla Procura.

Il risultato di questa vicenda è che il giornalismo investigativo - già da decenni in crisi di vocazioni - viene picconato, forse definitivamente. L’inchiesta giornalistica finisce sotto quella giudiziaria. Il cosiddetto quarto potere se la vede da solo contro gli altri tre. Il messaggio arriva forte e chiaro: come nei decenni passati, le denunce politiche e sociali vengono affrontate come una minaccia all’ordine costituito. Dunque muovere denunce contro il Palazzo è vietato: trattasi di zona franca, inviolabile. Si difende in tutti i modi da intrusioni non richieste perché è il Sistema che analizza, giudica e assolve se stesso.



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